La storia di una crisi annunciata |
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Previdenza a Ripartizione, previdenza a Capitalizzazione |
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Risale al 1898 la costituzione di una Cassa Nazionale di Previdenza per le pensioni di invalidità e la vecchiaia degli operai, fondata sulla raccolta dei contributi da parte di chi volontariamente e liberamente intendeva aderire. Occorreva una anzianità assicurativa di almeno 25 anni ed una età pensionabile di almeno 65 anni : in un epoca in cui la speranza di vita non superava in media i 45 anni, si può capire quanto pochine fossero le pensioni erogate…
A somiglianza di ciò che avveniva nelle assicurazioni private,
l’istituto assicuratore (divenuta nel frattempo obbligatoria la
contribuzione che venne estesa anche ad altre categorie di lavoratori a
partire dal 1919), basava la propria operatività sul principio della
capitalizzazione ovvero sull’accantonamento dei contributi riscossi
con cui si costituivano riserve finanziarie dalle quali (o dal reddito
ottenuto dall’investimento di esse) prelevare i fondi necessari per la
erogazione dei trattamenti pensionistici.
Per una scelta precisa di ordine politico, il legislatore non fece
ricorso agli unici interventi che potevano consentire – con
l’adeguamento delle pensioni in essere e di quelle in via di
maturazione - la soluzione globale della questione : la rivalutazione
dei coefficienti che trasformavano gli accantonamenti in rendita e la
utilizzazione del maggior gettito derivante dall’aumento del livello
della contribuzione obbligatoria, nel frattempo deciso evitare il
definitivo collasso del sistema. E’ appena il caso di osservare che utilizzare i contributi versati oggi da coloro che lavorano per pagare le pensioni a quelli più anziani e che non lavorano più significa materializzare un vero e proprio “patto” fra le generazioni.
Ma esso, sarà ancora sostenibile allorquando un singolo lavoratore dovrà
sostenere il peso di un pensionato?
Negli anni '60 era appena cominciato il boom e si era iniziata la grande corsa
verso lo Stato del benessere.
Il numero degli attivi contribuenti era assai superiore a quello dei
pensionati che dovevano essere mantenuti e formato da classi di età
molto giovani. L’importo delle pensioni erogate era in ogni caso non
rilevante e del tutto contenuto era complessivamente il carico numerico
dei trattamenti erogati. Sembrava più che logico quindi che:
Ormai si è pericolosamente vicini alla sostanziale parità tra numero di lavoratori in servizio (che pagano i contributi) e numero dei pensionati (i cui trattamenti sono pagati proprio attraverso la contribuzione degli attivi). Le riforme del 1992 (Riforma Amato) e sopratutto quella del 1995 (Riforma Dini) attraverso interventi strutturali, però troppo graduati nel tempo, hanno solo rallentato, ma non arrestato la corsa folle verso il dissesto. La svolta è costituita dalla introduzione di un meccanismo di calcolo (metodo del contributivo puro) che rispetto al più generoso e sperequante metodo di calcolo “retributivo”, attua la corrispondenza di un tempo fra contribuzione versata e quota di pensione maturata, secondo il principio della capitalizzazione, passando attraverso ad un regime definito “misto” (coesistenza di retributivo e contributivo). La strada imboccata conseguirà un equilibrio possibile tra entrate contributive ed uscite per prestazioni, ma purtroppo andrà a regime con grande ritardo come possiamo vedere dalla tabella seguente:
dall'esame di questi dati possiamo vedere che saremo in una situazione di equilibrio quando la maggioranza dei pensionati sarà sotto il regime contributivo. Le attuali generazioni non hanno, quindi, motivo di rallegrarsi! Si è trattato di un ritorno “storico” al passato, la cui rilevanza è peraltro accresciuta dalla specifica previsione della nascita di forme di previdenza collettive, integrative di quella pubblica, basate anch’esse sul principio della capitalizzazione (i fondi pensione o la previdenza del secondo pilastro).
Nel contempo, dalla riduzione progressiva della entità della pensione
“attesa” intesa come contributo individuale al risanamento del
nostro sistema, esce implicitamente confermata la assoluta necessità
del ricorso a forme di previdenza individuale (ovvero agli strumenti del
terzo pilastro) che meglio si adeguano a
rispondere alle esigenze del singolo e della sua famiglia, e che sono
perfettamente in grado di assicurare il mantenimento di un
irrinunciabile livello di qualità della vita una volta cessata la
attività lavorativa.
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