La storia di una crisi annunciata

Previdenza a Ripartizione, previdenza a Capitalizzazione

 

Risale al 1898 la costituzione di una Cassa Nazionale di Previdenza per le pensioni di invalidità e la vecchiaia degli operai, fondata sulla raccolta dei contributi da parte di chi volontariamente e liberamente intendeva aderire. Occorreva una anzianità assicurativa di almeno 25 anni ed una età pensionabile di almeno 65 anni : in un epoca in cui la speranza di vita non superava in media i 45 anni, si può capire quanto pochine fossero le pensioni erogate…

A somiglianza di ciò che avveniva nelle assicurazioni private, l’istituto assicuratore (divenuta nel frattempo obbligatoria la contribuzione che venne estesa anche ad altre categorie di lavoratori a partire dal 1919), basava la propria operatività sul principio della capitalizzazione ovvero sull’accantonamento dei contributi riscossi con cui si costituivano riserve finanziarie dalle quali (o dal reddito ottenuto dall’investimento di esse) prelevare i fondi necessari per la erogazione dei trattamenti pensionistici.
Questo principio restò in vigore ben oltre il 1933 (anno in cui la Cassa cambiò la sua denominazione in quella attuale) e fino al secondo dopoguerra, in cui una inflazione galoppante aveva intaccato gravemente sia il valore che il reddito delle riserve (prevalentemente investite in attività monetarie) le quali erano sufficienti ad erogare trattamenti di importo che si rivelava del tutto irrealistico di fronte alle quotidiane esigenze.

Per una scelta precisa di ordine politico, il legislatore non fece ricorso agli unici interventi che potevano consentire – con l’adeguamento delle pensioni in essere e di quelle in via di maturazione - la soluzione globale della questione : la rivalutazione dei coefficienti che trasformavano gli accantonamenti in rendita e la utilizzazione del maggior gettito derivante dall’aumento del livello della contribuzione obbligatoria, nel frattempo deciso evitare il definitivo collasso del sistema.
Si stabilì invece di finanziare le pensioni in corso con le entrate contributive correnti, introducendo il principio della ripartizione e cioè dell’utilizzo delle somme versate dai lavorativi attivi a titolo di contribuzione non già per costituire la base finanziaria per le loro pensioni del domani ma per pagare subito quelle di coloro che avevano già cessato la loro attività lavorativa. Questa doppia regola del finanziamento del nostro sistema previdenziale ebbe vigore in pratica fino alla fine degli anni 60.

E’ appena il caso di osservare che utilizzare i contributi versati oggi da coloro che lavorano per pagare le pensioni a quelli più anziani e che non lavorano più significa materializzare un vero e proprio “patto” fra le generazioni.

Ma esso, sarà ancora sostenibile allorquando un singolo lavoratore dovrà sostenere il peso di un pensionato?
Questa scelta era molto rischiosa e quasi nessuno colse che essa conteneva i presupposti per l’avvio progressivo ed inarrestabile di tutto il nostro sistema verso un dissesto che avrebbe costretto tutti a sacrifici pesanti ed a riprogrammare il nostro futuro.

Negli anni '60 era appena cominciato il boom e si era iniziata la grande corsa verso lo Stato del benessere. Il numero degli attivi contribuenti era assai superiore a quello dei pensionati che dovevano essere mantenuti e formato da classi di età molto giovani. L’importo delle pensioni erogate era in ogni caso non rilevante e del tutto contenuto era complessivamente il carico numerico dei trattamenti erogati.
Non esistevano freni o problemi di compatibilità e sostenibilità finanziaria alla realizzazione di un sistema normativo essenzialmente fondato sul concetto di base che un Welfare State moderno non poteva mandare in pensione i suoi lavoratori con risorse che fossero distanti da quelle che costoro avevano avuto a disposizione all’epoca in cui svolgevano la loro attività lavorativa.

Sembrava più che logico quindi che:

  • un soggetto lucrasse un trattamento pensionistico calcolato sugli ultimi cinque anni di stipendio, con un rapporto 80% dell’ultimo stipendio con 40 anni di contributi versati;

  • si istituissero anche per i lavoratori del settore privato, trattamenti anticipati rispetto all’età pensionabile, a prescindere dall’età del lavoratore a quel momento allo scopo di sanare gravissimi problemi di mercato del lavoro, (situazioni di crisi di larghissimi settori lavorativi);

  • si facesse ricorso a pioggia alle pensioni di invalidità 

  • si estendesse la tutela previdenziale anche agli artigiani,ai commercianti ed ai lavoratori dell’agricoltura esigendo però da costoro il versamento di una contribuzione poco più che simbolica.


A metà degli anni 90, per via dell’aumento della “speranza di vita” è fortemente cresciuto il numero degli anziani (il numero delle persone con più di 60 anni ha superato quello delle persone con meno di 20 anni) , siamo da anni di fronte alla “crescita zero” .
La pesante riduzione del numero dei contribuenti attivi, determinata da una lunga crisi del mercato del lavoro, è causa di una ulteriore diminuzione del flusso delle entrate. 

Ormai si è pericolosamente vicini alla sostanziale parità tra numero di lavoratori in servizio (che pagano i contributi) e numero dei pensionati (i cui trattamenti sono pagati proprio attraverso la contribuzione degli attivi).

Le riforme del 1992 (Riforma Amato) e sopratutto quella del 1995 (Riforma Dini) attraverso interventi strutturali, però troppo graduati nel tempo, hanno solo rallentato, ma non arrestato la corsa folle verso il dissesto.

La svolta è costituita dalla introduzione di un meccanismo di calcolo (metodo del contributivo puro) che rispetto al più generoso e sperequante metodo di calcolo “retributivo”, attua la corrispondenza di un tempo fra contribuzione versata e quota di pensione maturata, secondo il principio della capitalizzazione, passando attraverso ad un regime definito “misto” (coesistenza di retributivo e contributivo).

La strada imboccata conseguirà un equilibrio possibile tra entrate contributive ed uscite per prestazioni, ma purtroppo andrà a regime con grande ritardo come possiamo vedere dalla tabella seguente:

 

La Riforma Dini è troppo lenta

Evoluzione del peso % dei tre regimi pensionistici

DIPENDENTI 2005 2020 2035 2050
Retributivo 94% 64% 24% 5%
Misto 6% 34% 66% 53%
Contributivo 0 2% 10% 42%

AUTONOMI

2005 2020 2035 2050
Retributivo 96% 71% 325 5%
Misto 4% 27% 53% 38%
Contributivo 0 3% 32% 57%

 

dall'esame di questi dati possiamo vedere che saremo in una situazione di equilibrio quando la maggioranza dei pensionati sarà sotto il regime contributivo. 

Le attuali generazioni non hanno, quindi, motivo di rallegrarsi!

Si è trattato di un ritorno “storico” al passato, la cui rilevanza è peraltro accresciuta dalla specifica previsione della nascita di forme di previdenza collettive, integrative di quella pubblica, basate anch’esse sul principio della capitalizzazione (i fondi pensione o la previdenza del secondo pilastro).

 
Nel contempo, dalla riduzione progressiva della entità della pensione “attesa” intesa come contributo individuale al risanamento del nostro sistema, esce implicitamente confermata la assoluta necessità del ricorso a forme di previdenza individuale (ovvero agli strumenti del terzo pilastro) che meglio si adeguano a rispondere alle esigenze del singolo e della sua famiglia, e che sono perfettamente in grado di assicurare il mantenimento di un irrinunciabile livello di qualità della vita una volta cessata la attività lavorativa.

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